Da piccola ricordo di aver visto uno spettacolo di burattini siciliani che si facevano chiamare I Beati Paoli. Il nome mi restò impresso poiché durante quel lungo ed estenuante pranzo di matrimonio, io come gli altri bambini, avevamo già da un pezzo scoperto i posti dove giocare, finito ogni idea sul da farsi e preso la giusta dose di ramanzine sulle macchie di verde prato stampate sugli abitini chiari da cerimonia. Si trattava dunque della novità dopo ore di noia. Inizia lo spettacolo. Ricordo il mio stato d’animo: ero intimorita dalle marionette che si agitavano nel teatrino rosso messo su alla bell’e meglio sotto il gazebo. Il rumore di legno di clavicole e ginocchia manovrate dai fili di uomini invisibili, non mi metteva a mio agio. Le voci che arrivavano da fuori campo in una lingua di cui nulla capivo, peggioravano la situazione e dipingevano i volti dei personaggi, già spennellati di baffoni e accigliature, di una tetra cattiveria. Mentre nel palchetto i Beati Paoli si bastonavano e si insultavano della grossa, mi guardai intorno. I miei nuovi amici-per-un-giorno erano galvanizzati ed eccitati. Decisi così anche io di fingere lo stesso entusiasmo, giusto per non dare troppo nell’ occhio.
Oggi i burattini mi fanno ancora paura esattamente come mi fanno paura le fotografie post-mortem tanto in voga fino ai primi del ‘900. I parenti ancora vivi si facevano ritrarre con la salma del proprio caro già nella bara, posta in verticale. A volte il defunto era sorretto in piedi, con tanto di occhi aperti, da un leggio in metallo appositamente costruito per il caso. L’entusiasmo per questa pratica si spinse fino al desiderio di immortalare (?) gli ectoplasmi dei deceduti, complici foto in sovrapposizione e medium prezzolati dai fotografi condiscendenti.
Le mode cambiano ma burattini e imbalsamati a quanto pare perdurano. Oggi essere immortalati come spadaccini con le sciabole al vento o come fosse un duello di fioretto alle olimpiadi è il nuovo status symbol, necessario per chi suona uno strumento ad arco. Magari la fotografia tenta di restituire il pathos del momento. Peccato che durante il concerto questo atteggiamento ci stressi ad ogni cadenza, ad ogni corona e ad ogni doppia barra a fine pezzo, così che il pathos diventa pietas per i propri occhi. Non si sopporta più. Quartetti e solisti, gruppi da camera e intere orchestre che rimangono là imbalsamati, schienati all’indietro come fossero contro vento, in attesa di quello scatto che poi posteranno su internet: perché lo scatto giusto è tutto! Pescatori con la canna sportiva al momento del lancio e domatori col frustino nell’atto di flagellare un povero leone sedato. C’è chi risulta molto naturale e assai fotogenico in quella penosa artificiale esaltazione, ma molti scolorano di imbarazzo e, costretti a seguire la massa ovina, appaiono impacciati e pieni di vergogna, timidi nello slancio e maldestri nella movenza, scimmiottanti e caricaturali fino al grottesco.
Un altro scatto glamour da avere nel proprio shooting fotografico è la posa con saltello. I direttori d’orchestra sfondano podi, fanno tremare i primi leggii dell’orchestra e rischiano ormai femori e caviglie pur di avere la foto live con saltello e gocce di sudore proiettate contro i riflettori. Dunque non sarebbe meglio per agevolare, sostituire il podio con un tappeto elastico?
Cani travestiti da supereroi o bebè conciati da animaletti di peluches, dormienti dentro un secchio pieno di paglia, dentro una zucca vuota con in testa il picciolo, sepolti nei vasi di fiori a mo’ di girasoli o accasciati l’uno sull’altro stressati dallo scatto perfetto. Sempre questione di mode.
Violini tenuti sulla spalla come sacchi di Babbo Natale e copertine di etichette discografiche, considerate top level, che emanano e trasudano Photoshop. Si vede lontano un chilometro che i soggetti non hanno mai posato insieme su quei fondali sfumati grigio fumo e su quegli orridi parquet, sembrano spiritati per quanto guardano da parti diverse.
Alla fine è una questione di gusto, non di moda.